“Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem…”
così il poeta Virgilio sottolineava la felicità di una madre che vede il suo piccolo già dopo pochi giorni di vita rispondere al suo sorriso, aprendole il cuore a infinite speranze e possibilità.sentendone il battito del cuore e fruscio del respiro sotto le dita, può capire quale tragedia sia, quale sconforto e quale disperazione possa provare una mamma quando avvicinandosi alla culla del suo piccolo per offrigli il seno, se lo trova freddo e senza vita continua a leggere.
- Il pediatra di fonte alla perdita
- Il ruolo dello psicologo nel supporto alla famiglia
- Il ruolo degli insegnanti nel supporto ai fratelli
- Testimonianze
Questa breve guida nasce dall’esperienza dei genitori dell’associazione con l’obiettivo di fornire spunti di riflessione e consigli pratici affinché chi entra in contatto con una famiglia colpita da Sindrome della Morte Improvvisa del Lattante sappia attuare dei comportamenti funzionali ad una positiva elaborazione del lutto.
La presa in carico di una famiglia dopo la morte di un bambino di Ariette Garih (pdf 450 Kb)
Il Lutto genitoriale. Specificità e fasi di Richard D Goldstein (pdf 230 Kb)
Quello che deve sapere chi si occupa di bambini: la puericultrice, l’educatrice del nido, la baby sitter (pdf 180 Kb)
Il pediatra di fronte alla perdita
La morte di un bambino per SIDS costituisce un evento di grande rilievo sociale che tocca, per la sua drammaticità e la sua precocità, ogni persona, suscitando sul piano emotivo-comportamentale reazioni estremamente variegate a seconda del legame con quel bambino, della propria sensibilità, del rapporto personale che ciascuno ha con l’idea della morte. E’ naturale che la letteratura sul lutto infantile si sia ampiamente concentrata, a partire dai suoi esordi, sugli effetti psicologici della perdita sulle persone più direttamente coinvolte – i genitori e i fratelli – in vista della realizzazione di specifici percorsi di intervento finalizzati a fornire loro un supporto efficace per attingere alle proprie risorse psicologiche per affrontare le conseguenze più dolorose dell’evento.
L’obiettivo delle prime fasi delle analisi consisteva infatti nella descrizione e nella comprensione delle necessità psicologiche principali della famiglia in lutto. A questo proposito la letteratura è oggi concorde nel riconoscere l’importanza di un approccio medico e psicologico centrato sulla famiglia e fondato sul lavoro di equipe. Figure professionali diverse, specificatamente formate, possono offrire un aiuto sensibile alle famiglie, nel rispetto delle specificità culturali, sociali e religiose (American Academy of Pediatrics, 2002; Knazik, Gauche Hill, Dietrich, 2003; Knapp e Mulligan, 2005).
Una recente revisione basata sull’analisi di oltre cinquanta studi coinvolgenti più di quattromila genitori afflitti dal lutto per la perdita di un figlio per la SIDS offre numerosi spunti alla riflessione in particolare sul ruolo significativo del pediatra nel fornire un adeguato sostegno.
Emerge infatti che le famiglie abbiano, di fronte alla SIDS, necessità psicologiche ascrivibili a tre ampie categorie: il bisogno di dire addio al bambino, il bisogno di comprendere le cause della morte e la necessità di essere supportati dai servizi sanitari, non soltanto nelle prime delicatissime fasi della loro disperazione, che seguono immediatamente la perdita, ma anche successivamente, nel corso del tempo. Conoscere i bisogni psicologici di queste famiglie è naturalmente di grande aiuto per cercare di intervenire in modo opportuno al fine di tracciare specifici percorsi di intervento sia al momento in cui il lutto ha luogo, sia dopo, quando i genitori temono più fortemente che l’evento sia dimenticato e di essere lasciati soli con il loro dolore.
Studi qualitativi sono concordi nel riconoscere l’importanza che per i genitori riveste il momento di salutare per sempre il proprio bambino, in un luogo e in un tempo adeguato per loro. In una società dove tuttora l’esperienza della morte assume la dimensione di un forte tabu culturale, anche alcuni operatori sanitari risultano condizionati da un atteggiamento votato ad allontanare il prima possibile il genitore dalla sconvolgente esperienza dell’ultimo saluto. Studi scientifici a lungo termine hanno invece evidenziato che i genitori che non sono stati in grado di affrontare quella circostanza e che non sono stati accompagnati dai professionisti a vivere quell’importantissimo momento, esprimono, anche a distanza di tempo, un forte rammarico. Coloro i quali sono stati in grado di dire addio al bambino lo hanno ritenuto utile, mentre chi non lo ha fatto, sembra percepire successivamente un dolore maggiore (Schaap AH, et al., 1997; Brockbank J, et al. 2002; Woodward J, 2002; Macnab et al., 2003; Wisten A, Zingmark K: 2007).
Il processo di elaborazione del lutto necessita di un intenso sforzo personale che deve avere – pur nella confusa amalgama delle emozioni dolorose che seguono l’evento – alcuni riferimenti concreti, che aiutino il genitore a dare una definizione precisa e successivamente un luogo definito a quanto accaduto. Per questo il commiato dal bambino si rivela centrale, come pure la necessità, che emerge immediatamente dopo, di identificare una causa precisa della morte (Covington e Theut , 1997; Merlevede et al, 2004; Bellali et al., 2007). Coerentemente con tale rilievo da interviste su ottocentonovantadue genitori di casi di SIDS è emersa univocamente la necessità di rintracciare una causa (Royal College of Pathologists, Royal College of Paediatrics and Child Health, 2004).
Dal punto di vista psicologico, la comprensione di quanto è accaduto non restituisce ai genitori il loro bambino e non può distoglierli, inizialmente, dalla profonda e scioccante consapevolezza che il percorso di vita sia irrimediabilmente segnato da un evento raro e drammatico che condizionerà ogni aspetto del loro futuro. Tuttavia l’esperienza clinica insegna quanto per i genitori i mesi successivi alla perdita siano accompagnati dall’attesa costante di ricevere i risultati dei rilievi autoptici e quanto il loro bisogno di conoscenza di ciò che è accaduto al loro bimbo diventi ogni giorno più forte, alimentando un’aspettativa ansiosa dalla quale è difficile spostare l’attenzione.
Apprendere ciò che è successo rappresenta un aiuto fondamentale per dare un senso ad un’esperienza esistenziale alla quale è impossibile fornire una spiegazione razionale in grado di rasserenare il genitore (Covington, 1993; Wisten, 2007; Kuhn, 2008; Sterry, 2011). Inoltre, la perdita improvvisa e prematura del bambino produce fisiologicamente un forte senso di colpa. I padri e le madri, indipendentemente dalle circostanze dell’evento, sono pervasi dal convincimento di non avere agito in maniera sufficientemente responsabile per assicurare al loro piccolo la dovuta protezione. Nei loro racconti si evidenzia la tendenza a rivivere persistentemente le ore e i giorni che hanno preceduto la morte nel tentativo di rintracciare in sé stessi le prove inconfutabili di una incuria o di una sottovalutazione delle circostanze che documentino la loro incapacità di svolgere accuratamente il loro ruolo di genitori. Anche a distanza di tempo si coglie il persistere di pensieri intrusivi di contenuto negativo che riguardano presunte mancanze che avrebbero condotto alla perdita. Molte condotte che rivelano l’adozione di scelte personali attuate in buona fede per il benessere della famiglia (tornare al lavoro, iscrivere il bambino al nido, affidarlo alle cure dei nonni) divengono in loro, alla luce della SIDS, inequivocabili segni di una disattenzione distruttiva ed evitabile.
Tali sensi di colpa si acuiscono in quelle circostanze in cui, come sempre accade soprattutto alle madri primipare, la gravidanza è stata accompagnata da sentimenti molto conflittuali, che vedevano alternarsi all’orgoglio di dare alla luce una nuova vita, la profonda insicurezza nei confronti del futuro, del percorso intrapreso e della propria capacità di fare efficacemente fronte al compito di genitore.
Ricevere informazioni dettagliate rispetto alla morte del proprio bambino rappresenta un elemento di forte rassicurazione rispetto al fatto che si sia agito nel modo più adeguato (McHaffie, 2001; Merlevede et al., 2004; Wisten, 2007) e allevia questo viscerale senso di colpa (Merlevede et al., 2004; Meyer, 2006, Meert et al, 2007; Sterry, 2011).
Malgrado l’importanza dei rilievi autoptici nel processo di elaborazione del lutto, uno studio americano basato su una revisione di casi ha mostrato che una percentuale relativamente bassa, costituita dal il 28 % dei genitori, ha cercato i risultati dell’autopsia, nonostante il fatto che queste informazioni non fossero reperibili da nessuna altra fonte (Teklay, 2005).
Questo dato induce a riflettere sulla complessità delle reazioni psicologiche della famiglia e anche sulla necessità che ci siano operatori specificatamente formati, che – consci dell’importanza di queste informazioni per il genitore – siano altresì in grado di comprendere quanto le madri e i padri abbiano bisogno di essere accompagnati da vicino, in questa delicata fase, ad affrontare la lettura dell’autopsia, ad interpretare correttamente le informazioni che vi sono riportate.
Dal punto di vista psicologico, ricevere i risultati dell’autopsia contribuisce a raggiungere un senso di chiusura (McHaffie et al., 2001) che si profila centrale nell’elaborazione del proprio dolore e nello sguardo che a poco a poco viene aperto su un futuro possibile. In prospettiva, questo si rivela fondamentale per affrontare con maggiore consapevolezza le gravidanze successive.
Se da una parte è fondamentale per loro conoscere le cause che hanno prodotto l’evento, dall’altra parte queste rivelazioni si caricano di ovvi e fortissimi timori. La rappresentazione dell’evento spesso si riveste di molte paure rispetto, ad esempio, al fatto che il bambino possa avere sperimentato dolore fisico. E anche questo interrogativo che alberga nei pensieri più comuni delle madri e dei padri può scoraggiare ad affrontare le spiegazioni possibili, malgrado la necessità psicologica soggettiva di averne.
L’ambiguità dei desideri del genitore è confermata da uno studio condotto su un campione di 141 genitori con casi di SIDS ha mostrato che il 66% di loro hanno ritenuto che l’autopsia obbligatoria avesse fornito un aiuto sostanziale all’elaborazione del lutto, anche per il 17% dei genitori che inizialmente non volevano fosse effettuata (Vennemann et al., 2006). La mancanza di spiegazioni si profila infatti una causa di ulteriore sofferenza (Wisten, 2007).
L’aiuto del pediatra risulta pertanto fondamentale. È necessaria, infatti, l’apertura ad una presenza costante, rispettosa dei tempi che il genitore avrà per essere supportato. Può essere quindi importante che il medico offra la propria disponibilità per effettuare colloqui nel breve e nel lungo termine con la famiglia, finalizzati da un canto a fornire il proprio supporto di natura emotiva e dall’altro a sciogliere eventuali dubbi tecnici del genitore.
La maggior parte dei genitori apprezza che siano concordati appuntamenti di follow-up con i professionisti proprio per porre loro ulteriori domande, ritenendo che al momento della loro perdita erano troppo afflitti per comprendere le spiegazioni (Merlevede et al., 2004; Wisten, 2007; Meert, 2007; Bright et al, 2009) In questi casi occorre comprendere che spesso per i genitori il ritorno in ospedale può causare una esacerbazione dei sintomi ansioso-depressivi reattivi alla rievocazione del trauma. Per questa ragione si potrebbe considerare l’importanza di fissare gli appuntamenti in ambulatorio non collegato al trauma (Macdonald, 2005; McHaffie, 2001).
Concentrarsi sulla qualità della comunicazione con la famiglia, affinché più che in ogni altro caso essa possa essere connotata di tatto ed empatia sostiene il genitore in una comprensione maggiore delle informazioni delle quali necessita. In alcuni casi, riportati da diversi studi, i genitori hanno potuto ricevere i risultati dell’autopsia per posta e sono stati così privati della opportunità di discutere i risultati con un medico (Wisten, 2007).
A volte, anche quando essi hanno avuto la possibilità di effettuare un colloquio nel corso del quale ricevere gli esiti dei rilievi autoptici, hanno riferito poi di non comprendere chiaramente le spiegazioni e di avvertire che le loro domande e la loro richiesta di senso fossero rimaste senza risposta (Covington, 1993; Sterry, 2011).
Questo rilievo rimanda al problema della comunicazione, sul quale tuttora, nonostante l’evoluzione del modello relazionale medico-paziente e in generale della relazione di cura, permangono comunque alcune carenze segnalate dai genitori. Una revisione della letteratura riguardante la percezione che le famiglie hanno degli operatori di fronte all’esperienza della perdita del loro bambino ha mostrato che i genitori si sentono supportati quando gli operatori sono in grado di manifestare emozioni (Pector, 2004, Meyer et al., 2006, Khun, 2008; Mert et al., 2008). Al contrario, invece, i genitori sono ancora più sconvolti di fronte ad un personale che appaia freddo o impassibile (O’ Malley et al., 2014). Infatti, le madri intervistate a seguito di morti neonatali tendono ad interpretare il personale che manca di emotività come indifferente al proprio dolore (Lemmer, 1991).
Dai colloqui con i genitori non di rado emerge che questa sensazione di impassibilità di fronte all’evento che essi attribuiscono ai pediatri coinvolti, permane anche a distanza di tempo, che prendono ad essere un oggetto di sfogo della propria intensa rabbia per quello che è accaduto. Purtroppo in alcuni casi, il legame con il pediatra, di base od ospedaliero, si spezza senza che vi siano occasioni di chiarimento.
Molto spesso, l’apparente freddezza degli operatori sanitari è invece legata, se si esamina la reazione psicologica dal loro punto di vista, ad una serie di meccanismi che sono stati analizzati da un punto di vista scientifico solo nel corso degli ultimi decenni, a partire dagli studi che sono stati condotti sulle condizioni psicologiche degli operatori della salute attivi all’interno dei reparti di cure palliative. Oggi sono stati realizzati molti lavori che esaminano, invece, i livelli di stress contenuti all’interno dei reparti pediatrici e nei servizi di emergenza pediatrica, evidenziando come essi possano produrre, interagendo con alcuni tratti di personalità degli operatori, costellazioni di sintomi nota come sindrome del burnout.
Nella sua definizione originaria essa rappresenta “una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, spersonalizzazione e ridotta realizzazione personale, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente” (Maslach e Jackson, 1984).
Questi sintomi si traducono inizialmente in un eccesso di empatia e di indebita identificazione con la sofferenza dei pazienti, conducendo gradualmente ad una incapacità di mantenere un sano equilibrio tra obiettività e l’empatia. Tale eccesso di empatia esaurisce le proprie risorse e conduce infine a un lento disinvestimento emotivo sul paziente e allo sviluppo di sintomi di intenso malessere psicologico (Aycock e Boyle, 2009). Esaurimento, malattia fisica, mancanza di iniziativa e l’incapacità di far fronte a fattori di stress da lavoro ne sono conseguenza se questi sintomi non sono precocemente identificati e gestiti.
Il ruolo dello psicologo nel supporto alla famiglia
Tra i bisogni fondamentali espressi dalle famiglie che hanno perso un figlio per SIDS occupa un posto di rilievo il supporto di tipo emotivo, cioè a dire l’insieme delle attività messe in atto per sostenere il genitore nel percorso teso ad alleviare la sofferenza psicologica. Più specificatamente esso comprende un supporto immediato, urgente, di cui il genitore necessita da parte di tutta l’equipe sanitaria con la quale entra in contatto e un supporto psicologico guidato da un professionista della salute mentale, strutturato in sedute a cadenza regolare, continuativo nel tempo.
Il supporto emotivo
Nelle ore che seguono immediatamente la perdita, la famiglia colpita dal lutto attraversa una fase di evidente shock. Il genitore appare disorientato, violentemente colpito nel punto di maggiore fragilità. Alla disperazione si aggiunge una scarsa lucidità che rende poco consapevoli di come si sta agendo e di ciò che accade. Nel corso del tempo i genitori ripenseranno sovente a quei momenti e le parole degli operatori sanitari con i quali entreranno in contatto resteranno per sempre impresse nella loro memoria.
Un atteggiamento che sostiene i genitori comprende empatia, compassione umana, presenza fisica e tatto (Rudd, D’Andrea, 2013).
In un primo momento è necessario che la comunicazione così caratterizzata alla famiglia, più che concentrarsi sulle informazioni tecniche, che appaiono difficilmente comprensibili, contenga una serie di indicazioni specifiche e concrete, cognitive e comportamentali, per la gestione e il contenimento della propria emotività.
La regolazione dell’ansia e dell’improvviso senso di disperazione può essere agevolata grazie al modo di comunicare degli operatori sanitari che possono aiutare i genitori a calmarsi, inducendoli a respirare in maniera regolare, a mettere a fuoco eventuali comportamenti che possono orientarli ad accettare il sostegno dei professionisti o a convocare altre figure affettivamente significative, che possano stare loro vicine (Rudd e D’Andrea, 2013).
Comprendere il momento nel quale il confronto con il professionista psicologo sia più adeguato è un compito complesso e di non sempre facile soluzione. Non sempre i genitori accolgono immediatamente in modo favorevole la presenza dello psicologo.
A seguito della perdita è comune che la coppia genitoriale resti chiusa nel proprio dolore, e che tenda a rifiutare ogni intervento di tipo supportivo. Sia i genitori che i medici identificano la necessità dell’intervento di un professionista della salute mentale mirato ad accompagnare il genitore nell’elaborazione del lutto (Rudd, 2013).
Il supporto psicologico
È necessario del tempo, perché le madri e i padri realizzino progressivamente l’impatto che la morte del loro bambino può esercitare sul loro mondo emotivo e sulla vita quotidiana, e quanto, di fronte ad un dolore che prende il sopravvento su qualunque istinto vitale, essi abbiano bisogno di luoghi nei quali esprimere i loro sentimenti, di raccontare il loro vissuto e condividere con qualcuno di neutrale, esperto e preparato, quanto accaduto. Uno studio a lungo termine ha evidenziato che per i genitori che hanno perso un figlio per SIDS, il supporto psicologico è associato ad un effetto positivo a 5 anni dalla morte (Thuen, 1997). I genitori esprimono il bisogno di essere ascoltati non soltanto al momento della perdita (Reilly, 2008), ma anche successivamente (Swanson, 2002, Kuhn, 2008).
Il lutto rappresenta infatti, per ogni essere umano, una potenziale fonte di scompenso che può mandare in crisi il normale funzionamento psicologico di un soggetto e precedere l’esordio di un disturbo psicologico. Come è intuitivo pensare, la complicazione fondamentale nel lutto è costituita dal manifestarsi di sintomi depressivi (Stroebe et al., 1998).
I criteri diagnostici più utilizzati sono quelli che si riferiscono al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) redatto dall’American Psychiatric Association e giungo alla sua quinta edizione (DSM-5) (American Psychiatric Association – APA, 2013).
Secondo il DSM-5 per fare diagnosi di depressione il paziente deve presentare almeno 5, per un periodo di almeno due settimane (Criterio A di diagnosi). Nei cinque o più sintomi devono inoltre comparire “umore depresso” o “perdita di interesse o piacere”.
I sintomi elencati nel DSM-5 comprendono:
- Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
- Marcata diminuzione di interesse o piacere (anedonia) per tutte, o quasi tutte le attività, per la maggior parte del giorno.
- Perdita di peso significativa in assenza di diete o aumento di peso (ad esempio può essere significativa una variazione del peso corporeo superiore al 5% nell’arco di un mese), o riduzione/aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
- Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
- Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
- Fatigue o mancanza di energia quasi ogni giorno.
- Perdita di energia.
- Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi ogni giorno.
- Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione quasi ogni giorno.
- Pensiero ricorrente di morte.
Gli altri due criteri che devono essere soddisfatti per porre diagnosi di depressione in base al DSM-5 sono:
- Criterio B: i sintomi devono causare disagio o compromissione clinicamente significative in ambito sociale, occupazionale o in altro ambito funzionale importante.
- Criterio C: l’episodio depressivo maggiore non deve essere attribuibile all’uso di particolari sostanze o ad altra condizione patologica.
Accanto al vissuto depressivo, nel genitore che ha perduto un figlio improvvisamente, in una condizione inaspettata, possono manifestarsi quote di ansia, riconducibili ad una costellazione sintomatologica nota con il nome di Disturbo Post Traumatico da stress. Sempre secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-5; APA, 2013), per lo sviluppo di un PTSD è necessario che:
- La persona sia stata esposta ad un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale (Criterio A) facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. Un’altra possibile causa traumatica che può portare allo sviluppo di un PTSD è l’esposizione ripetuta o estrema a dettagli crudi dell’evento traumatico come ad esempio succede ai primi soccorritori che raccolgono resti umani o agli agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli di abusi su minori.
- I sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico (Criterio B), e possono manifestarsi sotto forma di ricordi del trauma ricorrenti, involontari ed intrusivi, sogni spiacevoli ricorrenti in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento traumatico e reazioni dissociative come flashback in cui ci si sente o si agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando. Le reazioni dissociative possono arrivare alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante. Inoltre può essere presente intensa o prolungata sofferenza psicologica nonché marcate reazioni fisiologiche all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
- Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico viene messo in atto dopo l’evento traumatico (Criterio C). La persona evita o tenta di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico. Inoltre, vengono evitati fattori esterni quali persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti e situazioni che possono suscitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico.
- Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico (Criterio D). La persona può non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico, sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi, gli altri, o il mondo come ad esempio “io sono cattivo”, “non ci si può fidare di nessuno”, “il mondo è assolutamente pericoloso”. Possono manifestarsi pensieri distorti e persistenti relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano a dare la colpa a se stessi oppure agli altri. Si può inoltre sperimentare uno stato emotivo negativo e provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore.
- Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico (criterio E) come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti, comportamento spericolato autodistruttivo, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà relative sonno come difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati oppure sonno non ristoratore.
La durata delle alterazioni descritte è superiore ad 1 mese (criterio F). Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (criterio G). Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza come ad esempio farmaci o alcol o a un’altra condizione medica (criterio H).
A seguito dell’evento si possono manifestare anche sintomi dissociativi quali:
- LA DEPERSONALIZZAZIONE: ci si può sentire distaccati dai propri processi mentali come se si fosse un osservatore esterno al proprio corpo (ad esempio sensazione di essere in un sogno; sensazioni di irrealtà di se stessi o del proprio corpo o del lento scorrere del tempo).
- LA DEREALIZZAZIONE: si possono avere cioè persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante (ad esempio il mondo intorno sembra irreale, onirico, distante o distorto).
Il ruolo dello psicologo consiste da un canto nel corretto inquadramento dei sintomi riportati dai genitori, mediante la valutazione psicodiagnostica cioè la procedura finalizzata alla descrizione del profilo della personalità attuale e dello stato affettivo. Tale valutazione è anche orientata ad evidenziare l’eventuale necessità di una presa in carico psicologica, che avrà luogo in considerazione anche della motivazione del genitore. Anche quando il vissuto del genitore non risulta soddisfare pienamente i criteri per un disturbo psicologico (che può necessitare anche un intervento di tipo farmacologico), le madri e i padri attraversano un momento di crisi esistenziale nei quali il supporto psicologico si rivela fondamentale per ridisegnare i propri scopi.
Questo lavoro, lungi dal dover essere un intervento isolato, si basa su un lavoro di equipe all’interno del quale il dialogo tra professionisti, con l’intento di sostenere una famiglia, risulta fondamentale.
Secondo la letteratura (Papadatou, 2009), i fattori che migliorano la capacità di un gruppo di professionisti di sostenere con competenza la famiglia sono:
- impegno a soddisfare i bisogni della famiglia,
- dare sicurezza,
- il lavoro di squadra aperto alla collaborazione interdisciplinare.
Dal punto di vista psicologico l’accettazione della perdita è un processo lento di disinvestimento e abbandono degli obiettivi irrimediabilmente compromessi e recupero di quelli ancora perseguibili, che si traduce nell’inibizione di tutte le condotte orientate dallo scopo compromesso e nella costruzione di nuove condotte per perseguire quelli ancora realizzabili.
Secondo l’analisi condotta da Mancini et al., 2005 il processo di elaborazione del lutto consiste fondamentalmente in una ristrutturazione cognitiva, cioè in un cambiamento, spesso sostenuto da un professionista della salute mentale, del proprio modo di pensare all’evento occorso. Secondo questa prospettiva, è centrale la modificazione delle credenze che i genitori hanno sul proprio potere rispetto all’evento, su due fondamentali livelli. Da una parte, specie nel periodo che segue immediatamente il lutto, il genitore può maturare il convincimento che la situazione nella quale si trova, sperimentando un dolore insopportabile possa cambiare attraverso l’adozione di comportamenti di ricerca compulsiva di tracce della presenza del bambino. Questa ideazione si coglie attraverso la sensazione che il bambino sia vivo, negli accessi continui al cimitero, nell’incapacità a staccarsi da oggetti dell’uso quotidiano o fotografie del bambino.
Solo attraverso la progressiva ripresa di contatto con la realtà, il genitore acquista gradualmente coscienza dell’impossibilità di risollevarsi dalla sofferenza attraverso un attaccamento costante all’oggetto di amore.
La terapia di supporto consente di lavorare attentamente anche sulle dinamiche cognitive legate da un canto al profondo senso di colpa, che si traduce, sul piano comportamentale nella tendenza persistente a vivere le epoche successive alla perdita come una sorta di espiazione.
Tali sentimenti sovente si alternano alla rabbia, prodotta alle credenze legate al “diritto” La perdita può essere vissuta come un torto subito, un danno ingiusto. Il senso di ingiustizia per il torto subito, non infrequentemente ha l’effetto di abbassare la soglia di tolleranza alle ingiustizie, per cui la persona sperimenta rabbia più frequentemente e più intensamente anche davanti a stimoli che prima non attivavano rabbia (avere un figlio che diventa grande, come accade alla maggior parte delle persone è un diritto) (Perdighe et al., 2010).
Il lavoro psicologico in chiave cognitivo comportamentale è rivolto prevalentemente alla ristrutturazione di queste distorsioni, che contribuiscono al mantenimento dei sintomi ansioso-depressivi.
Le modalità attraverso le quali l’intervento psicologico si realizzano cambiano in funzione delle caratteristiche, della struttura, delle motivazioni e delle risorse di una famiglia. Generalmente è importante che il supporto sia rivolto a entrambi i membri della coppia genitoriale. La pratica clinica evidenzia quanto le madri siano in generale maggiormente inclini, nel tempo, ad accettare l’intervento di un professionista della salute mentale per affrontare i nodi più desolanti della loro sofferenza e quanto invece sia più difficile per alcuni padri condividere il dolore attraverso la parola.
È importante, da questo punto di vista rispettare la volontà dei genitori ed aiutarli a comprendere quanto sia naturale trovare forme di espressione della loro sofferenza per ciascuno diverse. Il lavoro psicologico deve essere in questo senso indirizzato a comporre i conflitti fisiologici che da questa diversità di interpretazione della sofferenza e delle strategie per fronteggiarla possono indiscutibilmente nascere.
A prescindere dalle tecniche e dagli strumenti impiegati per sostenere le famiglie nel loro percorso di elaborazione appare di centrale importanza una formazione approfondita sulle dinamiche relative al lutto per la perdita di un figlio e sul suo impatto sulla vita di coppia e sociale.
I genitori stessi includono questa formazione tra gli elementi cardine per l’efficacia della terapia psicologica di supporto, che, secondo quanto emerge dalla letteratura sono:
- la conoscenza del processo di dolore che segue la perdita di un figlio,
- la relazione instaurata con lo psicologo,
- l’ascolto,
- la percezione di sentirsi accettati.
L’obiettivo del percorso di supporto è certamente cambiato nel corso degli ultimi decenni. Se in passato, l’elaborazione del lutto consisteva nell’accompagnare il genitore in un percorso di “distacco”, attualmente si sostiene il genitore nel percorso di integrazione della perdita nella propria vita futura ed attribuzione di significati a questa perdita, preservando il legame con il bambino che è venuto a mancare. I genitori necessitano di individuare e delimitare spazi significativi per poter ricordare e commemorare il piccolo (Davies, 2013), attraverso il coinvolgimento delle persone a loro vicine.
Occorre infine sottolineare l’importanza di coinvolgere nel lavoro di supporto psicologico anche gli eventuali fratelli del bambino che è venuto a mancare. La letteratura è concorde nel sottolineare quanto vistose siano le preoccupazioni dei genitori nei confronti dei bambini che già avevano al momento della perdita e quanto ritengano fondamentale ricevere un supporto adeguato per loro (Dent et al, 1996).
La centralità di un approccio che sostenga i fratelli è riconosciuta in letteratura già dagli anni ’60 del secolo scorso. Cain 1964 introdusse l’importanza di evitare “l’aritmetica senza senso che aggiunge vite distorte a quelle tragicamente interrotte”, col riferimento al vissuto estremamente doloroso e potenzialmente distruttivo dei fratelli che sopravvivono.
Lo psicologo opportunamente formato indirizza l’intervento sui fratelli lavorando sia attraverso i genitori, guidandoli nel delicato compito di comunicare in modo equilibrato con loro, sia direttamente sui bambini, non soltanto mediante la parola, ma anche attraverso il disegno o il gioco per evidenziare le credenze del bambino circa la morte del fratello, per alleviare la sua sofferenza e il senso di colpa e per fornire spiegazioni per loro importanti.
L’esperienza insegna quanto i bambini siano recettivi e capaci di attingere alle proprie risorse e alla propria indubbia capacità nel leggere il mondo che lo circonda per reagire al dolore proprio e della loro famiglia in maniera molto costruttiva.
Non stupisce quindi che questi piccoli pazienti affrontino in modo positivo e con grande collaborazione il percorso di supporto psicologico, traendone enorme beneficio.
Il ruolo degli insegnanti nel supporto ai fratelli
I fratelli dei bambini colpiti da SIDS attraversano un’esperienza dolorosa estremamente complessa, a seguito della quale il ritorno ad una normalità quotidiana risulta particolarmente carico di problemi. In particolare, il rientro a scuola si accompagna ad un senso di forte disorientamento, caratterizzato dalla percezione di una sorta di profonda incolmabile distanza rispetto ai compagni, al loro vissuto, all’interesse nei confronti delle attività scolastiche. E’ comune, inoltre, a seguito di un evento traumatico che si sviluppino reazioni di ansia da separazione contraddistinte da una vistosa sofferenza in concomitanza con il distacco dai genitori o da altre figure significative, che il bambino o l’adolescente temono di poter perdere. Frequente è la sensazione che l’allontanamento da casa, anche per poche ore possa coincidere con altri accadimenti drammatici.
Fondamentale diviene allora il contributo che gli insegnanti possono dare nel rendere il ritorno a scuola un momento di comprensione e di accoglienza, da una parte attraverso l’adozione di comportamenti e atteggiamenti orientati a fornire a questi bambini il supporto psicologico di cui necessitano, dall’altra nel preparare adeguatamente il gruppo classe ad affrontare il compagno e a coinvolgerlo nel modo più sensibile ed opportuno al suo ritorno. L’insegnante può dunque contribuire in maniera molto forte, attraverso il proprio agire, a significativi cambiamenti nella qualità di vita dell’alunno. Questo è particolarmente vero in ragione del fatto che, a seguito della perdita, il bambino e l’adolescente spesso avvertono una difficoltà nel condividere la loro sofferenza spontaneamente all’interno del contesto familiare, che vivono come fragile e denso di dolore. Temono che le domande che si affacciano alla loro mente possano rappresentare un’ulteriore fonte di sofferenza per i propri genitori specie perché di fronte ad alcune loro esternazioni è naturale che i genitori reagiscano con espressioni di pianto o di tristezza.
Poter contare su un interlocutore esterno, che li aiuti a fare luce nel groviglio di sentimenti che essi sperimentano è di centrale importanza, in un contesto nel quale la percezione di avere dei punti di riferimento solidi, in grado di accogliere e comprendere il proprio vissuto senza esserne profondamente intaccati, e con i quali poter istituire un dialogo aperto, aiuta a conferire loro maggiore sicurezza.
Prendersi cura di questi bambini non costituisce un compito scevro da elementi di problematicità, dal momento che la morte rappresenta un tema complesso che tocca chiunque, suscitando emozioni differenti a seconda delle proprie esperienze soggettive di perdita, del proprio modo di fronteggiarle, delle influenze culturali e della personalità. Inoltre sostenere i bambini e gli adolescenti durante il loro delicatissimo processo di elaborazione del lutto può essere difficile sia perché a seconda dell’età e del loro sviluppo cognitivo ed emotivo, le risorse sulle quali poter fare affidamento sono soggette a un’amplissima variabilità, sia perché in un contesto variegato per attività, esperienze e compiti, quale è quello della scuola, le reazioni degli alunni non sempre seguono una linearità, ma cambiano continuamente.
A differenza dell’adulto, che tende a mantenere stabile il proprio stato affettivo più a lungo nel tempo, il soggetto in età scolare, specie durante il corso dell’infanzia, tende piuttosto ad apparire esplicitamente addolorato solo in alcuni momenti. In altri sarà frequente trovarlo impegnato in attività ludico ricreative, senza che manifesti chiaramente i propri contenuti emotivi.
Inoltre il linguaggio che spesso durante l’infanzia e l’adolescenza viene impiegato per cristallizzare le proprie emozioni e comunicarle all’esterno è caratterizzato, molto più che nell’età adulta da aspetti comportamentali invece che dalle parole. Questo può rendere alcune reazioni improvvise o inaspettate più difficilmente decifrabili.
Compito dell’insegnante consiste nel riconoscimento dei sintomi espressivi del disagio del bambino per poterlo aiutare e per segnalare eventuali modificazioni comportamentali alla famiglia.
Tra questi segnali possono essere rilevabili:
- Comportamenti distruttivi o aggressivi, che si manifestano in situazioni di gruppo oppure sono indirizzate ad oggetti di cui prima avevano cura.
- All’interno delle manifestazioni di disagio possono rientrare anche disturbi di natura psicosomatica, come mal di testa o mal di pancia, che sovente il bambino lamenta durante le ore scolastiche insieme al desiderio di fare anticipatamente ritorno a casa.
- Sintomi di natura ansiosa: irritabilità, difficoltà a mantenere la concentrazione per periodi prolungati di tempo.
- Episodi di enuresi.
- Comportamenti che sottendono un maggior bisogno di attenzione, ad esempio la tendenza a ricercare una maggiore prossimità con l’adulto.
- Sintomi depressivi, quali mancanza di energie, calo nell’efficienza cognitiva e nel rendimento scolastico, tendenza all’isolamento.
SOSTENERE UN ALUNNO IN LUTTO
- Per il bambino può essere molto importante che l’insegnante lo contatti prima del rientro a scuola per concordare con lui ciò che desidera che venga detto e condiviso con i compagni. La collaborazione tra i genitori e gli insegnanti aiuta il bambino a sentirsi più protetto e a sentirsi rassicurato rispetto al fatto che il ritorno a scuola non sia un evento traumatico. Alcuni bambini possono avere timore che qualcosa rispetto alla morte del loro fratellino venga detta a scuola, poiché provano un senso di vergogna e di colpa. Spesso avvertono la penosa sensazione che la propria fisiologica gelosia, il senso di frustrazione che ha accompagnato l’ingresso della vita del loro fratellino nella vita familiare abbia causato la morte e proprio per questo tendono ad evitare che se ne parli. Il piccolo va invece da subito rassicurato attraverso spiegazioni “a misura di bambino” sul fatto che la morte costituisca una parte imprescindibile dell’esistenza umana e che il suo sentire non è colpevole.
- Preparare la classe ad accogliere il compagno in lutto è fondamentale, soprattutto per creare un ambiente sano all’interno del quale le emozioni, anche negative possano essere espresse. Affrontare questo tema pone alcune difficoltà che dipendono dall’età degli allievi. Il ricorso a materiali, libri e favole che illustrano il tema della morte può essere molto utile. Esso può costituire lo spunto per gli alunni di alimentare un dialogo, ponendo interrogativi ma anche esprimendo le proprie conoscenze, opinioni e sentimenti attorno a questo tema. Inoltre possono essere aiutati nel compito di comprendere quali siano i comportamenti migliori da attuare al momento del rientro del loro compagno a scuola, stimolandoli a pensare a quello di cui loro avrebbero bisogno se si trovassero nella stessa situazione.
- È importante rinforzare l’alunno ogni qualvolta desidera esprimere pensieri o dubbi rispetto all’evento occorso. Più piccolo è il bambino più il suo modo di esternare questi aspetti sarà mediato dall’agire più che dal linguaggio. Non deve stupire che il bambino in lutto si dedichi a giochi in cui rivive il tema della morte o produca disegni ad esso collegati. Questi rappresentano non soltanto dei preziosi indicatori del fatto che il processo di elaborazione della perdita stia gradualmente avendo luogo, ma anche il bambino sta fornendo dei segnali del modo in cui sta interpretando l’evento. Saperli leggere (e poterli eventualmente segnalare o correggere) è molto importante. Spesso il bambino attraverso i giochi, le azioni, la produzione grafica, tende a sondare le reazioni dell’adulto ed appare attento alle sue reazioni. Perciò è fondamentale rinforzare questa tendenza del bambino ad esprimersi, anche se i contenuti possono apparire violenti, dolorosi e angoscianti. È un modo per dare loro una forma a partire dalla quale le convinzioni spesso distorte possono essere accolte e modificate in maniera delicata e sensibile.
- Ritornare alle routine stabilite è per il bambino una fonte di rassicurazione. Mentre l’adulto, di fronte alla perdita può trarre beneficio dalla rottura di schemi precedentemente fissati, il bambino di fronte al suo disorientamento ha estremo bisogno di ritrovare i propri punti fermi.
- Può tuttavia essere necessario adottare un atteggiamento più flessibile, consentendo, ad esempio, al bambino di uscire dall’aula se richiesto. Occorrerà essere indulgenti sulle prestazioni scolastiche del bambino nel periodo immediatamente successivo alla perdita. Come è noto la mancanza di serenità nell’ambiente familiare, i cambiamenti che caratterizzano in modo drastico la vita del bambino incidono sulle prestazioni cognitive e sulle capacità di concentrazione, di attenzione e di memoria.
- Anche in una situazione dolorosa e difficile è importante che il bambino venga come di consueto indotto al rispetto delle regole e delle norme che ordinano il comportamento abituale degli alunni in classe. Va aiutato a comprendere, all’occorrenza, che le manifestazioni di rabbia diretta verso i compagni, se pur naturali vanno in ogni caso corrette.
- Eventuali condotte particolarmente disorganizzate e pervasive richiedono l’intervento specialistico.
- Esprimere, laddove richiesto, il proprio coinvolgimento in maniera equilibrata. Al bambino può essere utile sapere che ciascuna persona, a prescindere dall’età, prova di fronte ad un lutto sentimenti molto dolorosi. Questo procedimento di “normalizzazione” aiuta il bambino a scoprire non soltnto che la sofferenza è naturale, e pertanto va accolta e non respinta, ma anche che le persone che hanno attraversato momenti di sofferenza simile, sono sopravvissuti e sono stati in grado di provare nuovamente gioia. Esprimere le proprie emozioni è dunque importante, pur senza entrare in dettagli che potrebbero confondere o appesantire di ulteriori dubbi ed interrogativi la mente del bambino.
- Occorre pertanto avere particolarmente cura dell’aspetto comunicativo, evitando di sminuire i sentimenti che il bambino prova (con frasi del tipo “hai ancora un altro fratello” oppure “ci sono ancora i tuoi genitori”, “poteva andare peggio”). È importante infatti aiutare il più possibile il bambino a capire quanto la sua sofferenza sia naturale e possa essere espressa agli adulti e con i compagni.
Testimonianze
Alessio Battistini – Medico Legale
Quale è la funzione del medico legale nei casi di SIDS?
Il Medico Legale interviene, per disposizione del Pubblico Ministero, nei casi per i quali viene aperto un fascicolo di indagine presso la Procura della Repubblica. Ciò accade frequentemente, come atto di tutela preventivo, quando un decesso avviene in ambiente extra-ospedaliero ed in assenza di diretta assistenza medica.
Il Medico Legale, con l’incarico di Consulente Tecnico del Pubblico Ministero (o di Perito, qualora venga incaricato da un Giudice), sarà tenuto a rispondere ai quesiti tecnici posti dal procuratore, che vertono solitamente sull’individuazione della causa, della modalità e dell’epoca della morte: verrà quindi eseguita un’autopsia a cui faranno seguito ulteriori indagini di laboratorio (istologiche, microbiologiche, genetiche) qualora il Pubblico Ministero ne dia disposizione.
Lo scopo principale dell’attività del Medico Legale non è, pertanto, di tipo strettamente clinico, bensì giuridico nell’ambito delle indagini preliminari: in particolare, la raccolta di informazioni tecniche per permettere al Pubblico Ministero di stabilire se sussistono elementi di reato oppure no. In caso di decesso per cause naturali il Pubblico Ministero richiederà l’archiviazione con conseguente termine delle indagini giudiziarie.
Che tipo di specificità hanno i casi di SIDS rispetto all’abituale attività del medico legale?
I casi di sospetta SIDS hanno certamente elementi di peculiarità rispetto all’abituale attività medico-legale. Ciò non soltanto per la tenera età dei soggetti coinvolti, ma anche, e soprattutto, per il tipo di approfondimento tecnico che tali casi richiedono in termini autoptici e di indagini di laboratorio: esiste, infatti, un complesso protocollo nazionale per le SIDS e più in generale per le morti improvvise giovanili a cui è necessario attenersi.
Quale può essere il vissuto del medico legale quando si confronta con un caso di SIDS?
Il vissuto del Medico Legale, naturalmente diverso per ciascun professionista, è sempre ed inevitabilmente presente in ogni caso autoptico che si trovi a dover trattare e, più in generale, in ogni aspetto di una attività tanto particolare e delicata. Tuttavia, non dovrebbe mai essere tale da impedire al professionista di svolgere in modo concentrato e sereno un’attività tecnica caratterizzata dalla necessità di completezza e terzietà.
Per questo motivo, deve esistere un certo grado di distanza professionale con il caso che si sta trattando, senza mai travalicare il cinismo: il rispetto della sacralità della morte è un elemento centrale nella formazione, anche emotiva, di ciascun professionista, che si declina in concreto con il rispetto del corpo.
Nel lavoro del Medico Legale, rispetto significa anche sapere e dovere dare le giuste risposte nella ricerca della verità.
Come avviene la comunicazione con la famiglia?
Nei casi di competenza giudiziaria il Medico Legale è vincolato non solo dal segreto professionale ma anche dal segreto d’ufficio: egli può pertanto trasmettere informazioni unicamente al Pubblico Ministero (o al Giudice) e le comunicazioni con i familiari risultano di fatto pressoché assenti o al più limitate ad aspetti di carattere tecnico/burocratico.
Per questo motivo, il consiglio in questi casi è sempre quello di nominare (autonomamente o per tramite di un Avvocato) un proprio Consulente Tecnico che possa, per conto della famiglia, seguire le fasi giudiziarie e interloquire attivamente con tutti i soggetti coinvolti. Ciò consente ai familiari di conoscere la progressione delle indagini e le conclusioni a cui il Medico Legale incaricato è giunto, così come di pianificare eventuali approfondimenti di carattere clinico una volta esaurita la fase giuridica.
Enzo Fiorillo – Magistrato
La cd. “morte in culla” non determina alcuna responsabilità penale a carico dei genitori o, comunque, di chi debba vigilare sul neonato. E ciò perché si tratta di una morte improvvisa e (ad oggi) inspiegabile che, per quel che mi risulta, colpisce bambini apparentemente sani.
Si tratta dunque di un decesso non prevedibile e non prevenibile, ciò che esclude l’eventuale responsabilità per omicidio colposo: nessuna colpa, nessuna imprudenza o negligenza si ravvisano infatti nel “custode” del neonato.
Nell’ottica del Pubblico Ministero – al quale il decesso viene comunicato dagli organi di polizia – il problema consiste nella circostanza che di norma, ex ante, ciò che gli viene comunicato è appunto “solo” il decesso di un neonato: intendo dire che la eventuale riconducibilità di tale decesso alla SIDS emergerà solo in un secondo momento, successivamente agli accertamenti disposti (primo tra tutti l’esame autoptico) ed alle indagini volte (escussione di testimoni, eventuali accertamenti di carattere scientifico ecc. ecc.).
Infatti di fronte ad un decesso di tal fatta il P.M. deve necessariamente ipotizzare che esso possa esser dipeso anche da condotte colpose, o addirittura dolose. Il bambino (per fare qualche esempio) potrebbe esser stato accidentalmente soffocato dal seno della madre, potrebbe aver avuto una malattia colpevolmente trascurata dal genitore, potrebbe addirittura esser stato volontariamente soffocato, e così via.
Ne deriva che, prudentemente, il P.M. deve avviare le indagini, “aprendo” un fascicolo processuale. Non può escludersi (dipende dalla circostanze concrete, e dall’approccio al caso del singolo magistrato) che i genitori possano persino essere iscritti nel registro degli indagati, il che avverrebbe per ragioni tecniche, sulle quali non mi dilungo, ma che possono sostanzialmente ricondursi alla necessità di rendere processualmente utilizzabili nei confronti dei genitori stessi le indagini svolte (a cominciare dall’autopsia), ovemai dovesse emergerne la responsabilità.
Insomma il P.M. non sa ab initio perché quel bimbo sia morto: deve accertarlo, e questo comporta alcuni effetti che posso immaginare sgradevoli.
Sgradevoli in primo luogo per i familiari, che, al dolore per la perdita del bambino, ed agli inevitabili sensi di colpa che ne derivano, devono aggiungere lo strazio di un’autopsia e, ancor di più, del peso del sospetto che avvertono gravare su di loro.
Ma sgradevoli anche per il magistrato, che ben si rende conto del disagio e del dolore che finisce con l’arrecare, senza che tuttavia ciò possa influire sulle sue scelte investigative.
Naturalmente, se di SIDS si tratta nessuna conseguenza penale, come ti dicevo prima, ne deriverà. La situazione potrebbe cambiare solo se e quando si addiverrà – speriamo quanto prima – alla conoscenza esatta delle cause del decesso, e se si accerterà trattarsi di cause sulle quali sia possibile intervenire sì da rendere prevedibile, e dunque prevenibile ed evitabile, il decesso. A quel punto, in linea teorica chi non avrà adottato le necessarie precauzioni, dovrà rispondere dell’omicidio colposo del piccolo.
Anna Cremante – Psicologa
I genitori ai quali la SIDS ha strappato un figlio si riconoscono dallo sguardo, che sempre contiene in sé il segno di una cicatrice profonda e insieme la traccia del loro coraggioso guerreggiare alla ricerca di un equilibrio.
Nel corso di questa ultima decina d’anni ho imparato a conoscere e ad abbracciare quello sguardo tutte le volte che si è posato dentro i miei occhi, lasciando dentro di me la sensazione dell’enorme privilegio di poter accedere a questa sofferenza profonda e privatissima, per cercare insieme una via di uscita.
La morte di un bambino è un evento che riempie di sgomento e coinvolge tutti noi, come persone, prima ancora che come professionisti. L’evento evoca in noi non soltanto la lacerazione delle perdite che abbiamo subìto e cercato di affrontare nell’arco della nostra vita, ma anche un senso sconvolgente della precarietà e della caducità dell’esistenza. La partecipazione al dolore delle famiglie è quindi, anzitutto, umana. Insieme a loro ho avvertito anche io innumerevoli volte il loro stesso senso di impotenza e di incomprensibilità. La loro domanda di significati era anche la mia, come pure la rabbia nei confronti di una ingiustizia che costringe a cambiare il proprio modo di essere nel mondo, di sentire e di vivere.
Il dolore dello strappo che segue la perdita dei nostri affetti più cari ci costringe a cercare, con la enorme fatica che questo lavoro comporta, qualche risposta all’interrogativo etico che riguarda il significato che ciascuno di noi può dare al suo stesso esistere. Per tutti noi la scoperta di questa strada è un percorso complesso e mai lineare. E quando la morte tocca inaspettatamente un bambino, i nostri dubbi esistenziali diventano più grandi e più urgenti.
Di fronte alla sofferenza cristallizzata nella forma di parole durissime, che raccontano gli ultimi momenti di una tranquillità familiare poi improvvisamente infranta, ho sempre sperimentato la sensazione che – malgrado non vi sia alcun gesto che possa stemperare il dolore e restituire alla vita quel bambino – il solo fatto di poterlo condividere significa in qualche modo non essere i soli a portarne il carico.
E così, penso, il bagaglio può divenire anche solo un poco, più leggero.
Dare una forma alla sofferenza – raccontarla, descriverla nei dettagli – ha la funzione di renderla un paesaggio interiore che si riesce lentamente a contemplare. Con il tempo, attraverso il lavoro psicologico, si impara a notare in questo paesaggio inizialmente soltanto desolante e cieco, dettagli che possono costituire una fonte di ispirazione personale, a partire dalla quale provare a investire nuovamente su se stessi e sulla Vita, modificando le proprie convinzioni per approdare ad altre, inattese, costruttive.
Molti genitori chiedono insieme la consulenza psicologica, e tanta parte della loro energia traspare dall’intreccio delle loro mani, che cercano di darsi l’un l’altra conforto e sostegno. La prossimità emotiva di chi è loro vicino in questo percorso è forse il primo e più saldo appiglio alla ripresa. Nei momenti di disperazione, la scoperta di una sensibilità che si dispone a ricevere il nostro dolore aiuta a comprendere che non si è soli ad affrontare la difficoltà. Dapprima si impara a vivere giorno per giorno, poi a frantumare i vecchi schemi consolidati e a costruirne di altri.
Per ogni operatore che sostiene le persone durante il frastagliato percorso di elaborazione del lutto, assistere al loro cambiamento, ascoltare per la prima volta lo scroscio di una loro risata durante un incontro, percepire che nuovi entusiasmi possono a poco a poco animare progetti e speranze, rappresenta un’emozione di ineffabile intensità.
Altrettanta ne ricevo attraverso i colloqui con i piccoli fratelli, il cui mondo interiore carico di domande, di interpretazioni e di pensieri rappresenta una fonte di ricchezza dalla quale ciascuno di noi può apprendere un modo efficace per conoscere e affrontare il proprio dolore, senza che questo sia mediato da alcuna sovrastruttura culturalmente determinata.
Una bambina di quattro anni mi disse: “Di morti conosco un nonno, che però era vecchio. Un gatto. E il mio fratellino. E quindi non capisco.”
Sostenere i piccoli esploratori di sentimenti e di esperienze nel loro itinerario teso a dissipare i dubbi e ad alleviare il proprio carico emotivo rappresenta ogni volta un momento molto speciale in cui non cessa di colpire il loro estremo acume, la capacità, meno comune tra i grandi, di arrivare al fondo delle questioni più insidiose in maniera diretta, con una semplicità innata e un linguaggio nitido, privo di ombre, che per l’adulto sarebbe difficile impiegare.
Proteggere questi bambini dal rischio che i loro sensi di colpa – spesso inespressi – e l’insicurezza prodotta dall’improvvisa perdita possano minare la capacità di investire positivamente nel futuro e nella realizzazione dei loro sogni è una missione indiscutibilmente centrale, alla quale devono concorrere diverse figure.
E’ importante che bambini e adulti non siano lasciati soli con il loro dolore. Medici, infermieri, insegnanti e psicologi, ciascuno attraverso il filtro della propria specifica formazione e nel rispetto dei propri ruoli professionali, possono fornire il loro contributo nel sostenere queste famiglie provate dalla disperazione.
Per questo il lavoro di equipe rappresenta una necessità fondamentale affinché la famiglia, non solo nelle prime fasi del proprio lutto, ma anche più avanti, nel tempo, percepisca che il suo bambino non viene mai dimenticato.
L’immagine del loro bambino, l’intensità della loro esperienza, il coraggio che i genitori profondono nel fronteggiare la quotidianità sapendosi ogni istante mutilati del loro più grande amore si sono impressi in modo indelebile nella mia memoria, continuando ad accompagnarmi nella mia crescita umana e professionale, insieme al legame che inevitabilmente con queste famiglie speciali si crea.
Un rapporto di affetto e di umana solidarietà che, tracimando dai confini professionali, rappresenta un tesoro da custodire sempre.
Grazie, allora, a queste famiglie, per tutto ciò impariamo insieme.
Alessandra Corrias – Infermiera
Sono Alessandra, un’infermiera pediatrica che lavora da 15 anni in pediatria, a Varese.
Il nostro ospedale è il centro di riferimento del nord Italia per ALTE e SIDS.
Avevo letto solo sui giornali dei casi di “Morte in culla”, a scuola nessun medico ci aveva mai parlato di questo.
La prima volta che ho sentito parlare di ALTE avevo iniziato a lavorare da circa un mese, non sapevo neppure che cosa volesse significare l’acronimo; non ero preparata ad assistere bambini ricoverati con questa sospetta diagnosi.
Ricordo ancora la preoccupazione dettata dal non sapere come rispondere alle domande dei genitori, spaventati ancora dall’evento a cui avevano assistito e che chiedevano risposte ai loro perché.
Il monitor che si usava era un’altra incognita. Correvo in stanza ogni volta che lo sentivo suonare con l’ansia che il piccolo avesse avuto un nuovo episodio.
A distanza di anni ho acquisito competenze che mi consentono di dare risposte ai genitori, di tranquillizzarli, di dare indicazioni sui comportamenti corretti da tenere per una “nanna sicura”.
Alcuni di questi genitori mi contattano anche a casa se hanno qualche dubbio o solo per sentire una parola di conforto o per salutarmi.
Nella mia esperienza lavorativa ho avuto modo di relazionarmi con genitori i cui figli era deceduti per SIDS. Una esperienza è ancora impressa nella mia memoria.
Erano due gemelli di tre mesi, un maschio e una femmina. Un pomeriggio la madre, dopo aver allattato la bimba, mentre il maschietto dormiva, era andata a metterla nella culla e si era accorta subito che nella stanza c’era uno strano silenzio, così lo ha descritto lei. Ha preso in braccio il piccolo e ha subito capito che era morto. Nel suo racconto c’è la descrizione dell’inutile corsa in ospedale, accompagnata dal marito e dalla piccola.
In ospedale è stato accertato il decesso e richiesta l’autopsia. La piccola è stata ricoverata nel nostro reparto per essere sottoposta a monitoraggio.
Entrare nella stanza durante il turno di lavoro non è stato semplice, non sapevo cosa dire. Come avrei potuto aiutare questi genitori?
Mi sono fatta forza e sono entrata. Ho visto negli occhi la sofferenza di questa mamma e, da mamma di quattro figli ho provato ad immaginare quanto fosse grande, ma non ci sono riuscita. Non sono stata in grado di dire niente, le ho appoggiato una mano sulla spalla e lei ha piegato la testa fino a toccare la mia mano, mi ha guardato con gli occhi pieni di lacrime e mi ha ringraziato.
Le volte successive che sono entrata in stanza la mamma mi ha raccontato senza che glielo chiedessi, gli avvenimenti accaduti. Sono rimasta seduta vicino a lei ad ascoltarla senza dire una parola.
Un’esperienza che non dimenticherò mai e che mi ha insegnato che, soprattutto nel mio lavoro e in queste circostanze il silenzio e un piccolo gesto valgono più di mille parole.
Prof. Luigi Nespoli – Pediatra
Ho conosciuto la SIDS, ma forse sarebbe oggi chiamata morte improvvisa, inaspettata (SUDI), quando giovane pediatra fui chiamato da un Collega per una visita programmata al suo neonato dimesso dal nido in 5° giornata di vita (come era allora la prassi).
Di lì a pochi giorni, la mattina del giorno programmato, mi telefonò la mamma per dirmi che la visita non era più necessaria perché ella aveva trovato il neonato morto nella culla quando si era alzata per allattarlo.
Dopo allora, in alcune altre occasioni sono stato sfiorato da queste tragedie che mi venivano raccontate dai genitori anche dopo anni dall’evento, ma con la stessa drammaticità e lo stesso coinvolgimento emotivo che avevano provato in quegli istanti.
Se la morte di un figlio è drammatica, contraria al naturale corso della vita, la morte di un lattante, sano, risulta inaccettabile: non conoscere la causa, non riuscire ad identificare un colpevole (virus, batteri, tossine, malformazioni) impedisce anche di riuscire a rassegnarsi, ad elaborare il lutto perché tutto grida che è stato un evento assolutamente ingiusto, innaturale.
Conoscere è potere: da un lato ci può permettere di combattere la causa, le cause, di un evento destruente e non giustificabile né per la scienza né per la nostra psiche, dall’altro anche il solo sapere che una causa esiste anche se senza possibilità di essere intercettata e rimossa, aiuta a rialzare lo sguardo riaprendo la nostra vita al futuro.
Circa 20 anni orsono, fui nuovamente trascinato verso questa realtà, la SIDS, dalla esperienza, dalla voce, di due mamme che avevano vissuto il dramma SIDS e avevano dovuto confrontarsi non solo con la tragica perdita del figlio, ma anche con la ignoranza diffusa (rifiuto) nei confronti della morte in culla, morte bianca, SIDS.
La ignoranza portava con sé, la non attenzione alle richieste primarie dei genitori provati dal lutto: si iniziava con l’intervento della magistratura, delle forze dell’ordine, per concludere dopo molti mesi con una lettera, quando si era fortunati, che veniva recapitata da una anatomia patologica e che sanciva ciò che già i genitori conoscevano, ovvero nessuna causa di morte identificabile.
I genitori rimanevano soli e più disperati di prima.
Da queste esperienze personali, nacque la richiesta di fare qualcosa anche presso di noi, a Varese, sapendo che a Firenze già esisteva una associazione che da alcuni anni si occupava della morte in culla.
La sollecitazione dei genitori e nostra, fu rapidamente accettata dalla regione Lombardia la quale creò una commissione dove entrarono gli epidemiologi, gli igienisti, i cardiologi, gli anatomopatologi, i neonatologi, gli ostetrici, i rappresentanti dei genitori, nonché noi pediatri.
Dopo accese e vivaci discussioni, si mise a punto un opuscolo con protagonista la cagnetta Pimpa, nel quale venivano trasmessi i consigli della campagna “back to sleep” che era stata lanciata negli USA nel 1994.
L’opuscolo non fu accettato dalla commissione e pertanto grazie ai contatti con l’associazione Semi per la SIDS di Firenze, si trovò l’accordo di stampare e distribuire l’opuscolo* già creato a Firenze in tutti gli ospedali lombardi secondo una delibera regionale.
Fu un momento esaltante, ognuno metteva del suo: tanta passione, tanta disponibilità, tanta sincerità. Alcuni della commissione offrirono di trasportare con la propria auto, altri depositarono gli opuscoli, stampati dalla Regione, nel proprio garage, tutti fecero propaganda come se si trattasse di vincere le primarie! (allora non erano ancora state inventate!)
Per ottenere che tutte le Istituzioni distribuissero il materiale fu necessario un deciso intervento della Regione e nonostante questo non tutte le realtà accettarono prontamente il libretto regionale.
Oggi dopo questo inizio, non esiste più il tabù della SIDS, se ne parla e scrive ovunque e moltissimi genitori ne seguono i consigli compresi quelli di non fumare in gravidanza e in vicinanza del neonato/lattante.
Siamo certamente un passo avanti, siamo ancora lontani dall’avere ottenuto il 100% di quanto le nostre due mamme proponevano, ma ,come scrisse Voltaire: “l’ottimo è nemico del bene”! Devono ancora essere accettati da tutti, a livello nazionale, i percorsi diagnostici e gli interventi post-SIDS, ma l’attenzione è sempre accesa.
Le conoscenze sulla patogenesi si sono enormemente ampliate anche grazie alla biologia molecolare che entrava allora nella prima infanzia mentre oggi ha raggiunto la maggiore età. Si riescono oggi ad interpretare la gran parte delle morti improvvise, ma nonostante ciò rimane ancora una quota di morti inspiegate.
Mi piace ritornare a Bacon “knowledge is power”, infatti conoscere permette di sedare e colmare il desiderio di una spiegazione di ogni genitore e soprattutto permette di programmare un futuro che può essere di gioia.
L’incidenza della SIDS in Italia è crollata ( grazie a queste iniziative abbiamo potuto stabilire esattamente quale fosse stata negli anni precedenti, almeno in Lombardia), ma resta ancora una quota da interpretare per far definitivamente scomparire questa maledizione, questo lutto.
In questi anni si è anche riacceso l’interesse su una condizione dapprima considerata una variante di SIDS, successivamente vista come del tutto distinta, oggi, grazie alle conoscenze di genetica molecolare nuovamente accostata alla SISD, le ALTE (Apparent Life Treathening Events). Questa condizione che comprende nella sua stessa definizione l’ansia che l’osservatore, testimone dell’evento, prova, a causa della nostra ignoranza sulla sua patogenesi e sulla sua evoluzione che raramente sfocia in SIFDS, è di fatto fonte di ansia ulteriore per i genitori e i medici curanti.
La nostra non conoscenza può portare ad una eccessiva medicalizzazione (monitoraggi domiciliari, ricorrenti esami ematochimici e strumentali nonchè visite di controllo) che incidono su come il bambino viene vissuto dai suoi genitori. Il rischio è di trasformare un lattante sano, in un bimbo diverso dai suoi coetanei, almeno a livello della propria psiche.
Di grande aiuto per evitare ciò, sono e saranno le linee guida ALTE approvate dalla Società Italiana di Pediatria e stese sotto la spinta dell’infaticabile dott. Piumelli, che di fronte alla scarsità di conoscenze e quindi di potere operativo, offrono una traccia sicura di comportamento permettendoci di non essere superficiali e nel contempo di non creare patologie non esistenti.
Posso concludere che questi due decenni non sono trascorsi invano, la voce di quelle due mamme, provvidenziali, ci confortano e i dati epidemiologici ci danno ragione.