“Oggi sono passato a trovare la bimba”, Silvia mi guarda, come in attesa di un ulteriore commento. “Era tutto a posto ?” mi chiede. “Era tutto a posto. Avevo una mezz’ora prima di andare in studio …” Penso: devo giustificare questa mia visita?
Per tanto tempo nostra figlia ha saturato le nostre giornate, dal risveglio al mattino fino al momento di dormire la notte. Spesso anche durante la notte. Quante volte l’ho sognata, Silvia mi ha molto invidiato perché ogni tanto la sognavo (oddio da quanto tempo non mi capita ?), mentre a lei è successo solo una volta. Mi svegliò durante la notte e mi raccontò il sogno. Era un bel sogno perché finiva che Martina si addormentava, forse per sempre, ma prima di chiudere gli occhi le sorrideva e le strizzava un occhio. Poi Silvia si era svegliata, col cuore che andava a cento. “È stato un bel sogno”, le dissi, “Sono certo che vorrebbe che tu stessi in pace”. Ma Silvia non è mai più stata in pace.
Ora Martina non riempie più le mie giornate, a volte mi chiedo se lei è solo un posto dove andare a pensarla. La ritrovo lì, quando riesco ad andarci da solo. L’acqua ai fiori, il lumachicida, sono solo scuse per andare da lei, sempre meno spesso, devo ammettere con me stesso. Ci sono tante altre cose nella mia giornata, il lavoro, la famiglia, i mille pensieri quotidiani, ecco, lei non è più un consueto pensiero quotidiano e questo mi fa sentire enormemente in colpa. A volte non riesco a ricordare il suo viso e sto male per un po’. Con Silvia non si parla quasi più di lei, benché, lo so bene, lei continui a pensarci ogni minuto. Eppure la nostra vita non è più stata la stessa. Sono passati più di undici anni …
Mi svegliai con la netta sensazione che qualcosa non andava. Martina, piccola mia, non ci aveva fatto dormire un granchè nei suoi trentasette giorni di vita. Piangeva perché aveva fame, poi piangeva perché il latte non le piaceva, poi piangeva perché aveva le coliche gassose. Eravamo stremati, per il poco sonno e per la preoccupazione di questa bimba che non riusciva ad alimentarsi bene, tanto che l’avevamo portata in pediatria, dove hanno la banca del latte, l’avevano passata al latte umano e le cose erano migliorate. Quella notte mi ero alzato io per l’ultima poppata, Silvia era a pezzi, dormiva poco e male. Martina aveva mangiato quasi tutta la sua dose di latte, ero soddisfatto di me, l’avevo cambiata, avevo fatto tutto senza dover svegliare mia moglie, la piccola sembrava tranquilla, la portai nel nostro letto, per la digestione, Silvia dormiva ma si girò verso di noi per accarezzarla. Dopo un rapido ruttino la portai nella sua culla e la misi come piaceva a lei, a pancia in giù (e come consigliato dall’ostetrica che ci aveva aiutati ed addestrati) col viso verso la finestra. Mi addormentai istantaneamente, col timore di sentirla piangere, consapevole che sarebbe toccato a me alzarmi. Quando mi svegliai, stupito per il lungo sonno senza interruzioni, era giorno e non riuscii a rimanere a letto. Andai a controllare la culla. Anche Silvia era sveglia e anche lei si era tirata su, preoccupata per l’assenza di qualunque suono dalla culla, sistemata in fondo al nostro letto. Martina quando non si svegliava piangendo e quando non gorgheggiava (accidenti, per quanto mi sforzi non riesco a ricordare i suoi gorgheggi) emetteva comunque suoni, che fossero piccoli grugnitini, o lo sforzo che le imponeva il pancino, si faceva sentire. Quella mattina niente. La trovai immobile, scoperta, il viso premuto contro il materasso.
Era andata via da ore. Aveva lasciato al suo posto un bambolotto rigido, con le macchie ipostatiche al nasino e alla fronte, la maglia gialla che le aveva ricamato mia madre, il pannolino, la sue scarpette … Non ricordo cosa dissi, ma l’afferrai disperato e la portai di sotto, non so perché, istintivamente credo, volevo nasconderla a Silvia che pietrificata seduta nel letto mi urlava, incapace di muoversi “Cosa ha? Che è successo ? È viva?”. Giù di sotto la portai in bagno, sul suo fasciatolo “Il cuore forse batte ancora, chiama l’ambulanza !” Le urlai nel tentativo di prendere tempo e di rimandare l’inevitabile schiaffo della realtà dei fatti. E Silvia accettò l’inevitabile e accettò anche di rimandare il confronto con lui, col corpicino immobile di Martina e con il vuoto, non descrivibile, che aveva già lasciato. Telefonò al 113, e poi telefonò a sua madre e poi si aspettò.
Pochi minuti. Arrivò l’ambulanza e si decise di portare comunque la bimba in ospedale. E fu solo lì, pochi minuti dopo, che lei la rivide, immobile sul lettino del pronto soccorso. Non ci si guardava in faccia, non avevamo il coraggio e tutti e due sapevamo, lo sentivamo, che stavano iniziando, martellanti e implacabili, i sensi di colpa. Sapevamo che ci avrebbero aggredito e che per quanto volessimo che ci aggredissero (credo che chiunque vorrebbe stare male, nessuno accetterebbe di non sentirsi il cuore a pezzi di fronte alla morte di un figlio, al quale nessun genitore pensa di
sopravvivere) avevamo il bisogno ciascuno di salvare l’altro, di proteggerlo dal dolore che sarebbe arrivato. Ricordo di quella mattina le pratiche burocratiche, il permesso per l’autopsia, il verbale (non potrei onestamente definirlo un interrogatorio, furono molto cortesi e comprensivi) per la polizia, il magistrato non lo vidi neanche, l’arrivo dei miei genitori alla camera mortuaria, i miei colleghi da Pisa, i nostri amici, tutti coloro che sapevano quanto questa bimba l’avessimo desiderata e cercata (abbiamo avuto Martina dopo tre anni di vane attese, esami, consulti, cure, ma alla fine la gravidanza era arrivata e, ma allora non lo sapevamo, in fondo era l’ultimo dei nostri pensieri, non ne sarebbero venute più, nonostante la nostra ostinazione) e che si rendevano conto della drammaticità ulteriore del momento. Ricordo la piccola sul marmo dell’obitorio, tra due salme di persone molto anziane, la sua presenza lì così stonata, così penosa. Ma, soprattutto, ricordo le interminabili passeggiate attorno all’ospedale, stretti, Silvia ed io in un abbraccio solidale, ad affrontare il nostro fallimento. Fallimento nostro di genitori, che avevano perso la loro bimba, fallimento mio di medico, che non avevo saputo prevedere, prevenire, intervenire. Fallimento di Silvia come madre, che aveva permesso che fossi io a darle l’ultima poppata (“se l’avessi tenuta un po’ con me, se l’avessi ninnata un po’ prima di metterla a dormire, se mi fossi svegliata, se non avessi avuto questo sonno di piombo …”). Si era avviata anche per lei, per noi, quella che, più tardi, avrei scoperto essere denominata la “Sindrome di if” se… se… se … Come togliersi dalla mente tutti i se del caso? Ci pensò, cercò di pensarci e di questo gliene sarò sempre grato, Pietro, che aveva perso in circostanze analoghe sua figlia pochi mesi prima e che aveva fondato un’Associazione. Ironia della sorte, l’Associazione era stata fondata nella mia città, a pochi metri da casa nostra, da parte di persone allora a noi sconosciute, nello stesso giorno in cui Martina moriva. Pietro mi spiegò tutto della SIDS e mi aiutò a capire, l’imprevedibilità dell’evento, la sindrome di if, appunto, la necessità di affrontare la realtà e di considerare come questo tipo di lutto avesse colpito altre famiglie, che ci sarebbero stati forse sguardi di sospetto verso la nostra capacità di essere dei buoni genitori, ma che la SIDS non è dovuta a negligenze o incompetenze dei genitori. Si parlò molto e lui e Cristina, sua moglie, ci stettero molto vicini. Il tempo, il tempo, ci disse un’amica, per quanto banale sia la cosa, il tempo, credetemi, sarà l’unica cosa che vi aiuterà. E così è stato, e il crederle o meno non aveva importanza in quel momento. Il tempo ha continuato a scorrere regolarmente e ci ha ridato un’esistenza normale ma ci ha portato via anche un po’ di lei, così dolorosamente presente allora, così lontana, riposta al sicuro in un posto del nostro cuore oggi.
Per me cominciò una strada, quella dell’impegno a favore di questa associazione (se Pietro era stato utile a me, io volevo esserlo ad altri) e soprattutto quella di un impegno diverso da prima nella vita di tutti i giorni. È difficile spiegarlo: è come se da allora io mi sia sentito in credito verso la vita, e abbia creduto fermamente che questo credito io lo avrei riscosso un po’ alla volta, a compensare la perdita di Martina. La vita me lo doveva. Da allora mi sono impegnato in tutto quello che ho fatto, come prima forse non facevo, sorretto da una irrazionale fiducia di avere una mano dalla sorte, che me la doveva, E la sorte mi ha aiutato. Mi piace pensarlo, mi piace pensare che sia Martina che mi da e ci da una mano, tutti i giorni. È forse l’unica debolezza che mi concedo, è forse l’unica via aperta che ho lasciato ad un rapporto, spirituale, con mia figlia.
Paolo